Simona Castellani

“Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva o che non giovi ad un nobile scopo”.

[Adriano Olivetti]

Adriano Olivetti con questa frase descrive benissimo lo sconforto che si può generare nei lavoratori di un’azienda che non abbia un nobile scopo, figuriamoci se lo scopo non è nemmeno mai stato riconosciuto, né dichiarato, né condiviso. Quante volte capita ad un lavoratore di essere messo nelle condizioni di partecipare ad un senso? Non abbastanza ahimè. Cerchiamo di capire perché è importante farlo.

Molte aziende oggi sono sull’ ”orlo di una crisi di scopo o di senso” (Giampaolo Colletti ne parla sul Sole24ORE del 19 settembre 2019) perché non sono consapevoli di come contribuiscono – attraverso il loro modo di fare impresa – a migliorare la vita delle persone e le condizioni del pianeta o della società o non si interrogano su come possono contribuire a farlo. Le organizzazioni “a movente ideale” che invece danno un contributo fattivo alla comunità e lo raccontano con coerenza e autenticità, stimolano le migliori aspirazioni e le motivazioni intrinseche dei lavoratori, un attivatore potente della loro produttività e fidelizzazione all’azienda (Leonardo Becchetti, Wikieconomia). Risultato: benessere dei lavoratori, miglioramento del clima aziendale, aumento della profittabilità dell’organizzazione.

Del resto “non esiste alcun tipo d’intervento che possa a priori trasformare una persona e farle prendere une certa strada, se lei per prima non vede il senso o l’interesse personale” (Gilles Charest, Vivere in Sociocrazia). Funziona così anche per la sostenibilità se ci pensate. Perché un’impresa dovrebbe impegnarsi sul fronte della sostenibilità se non ne comprende il senso? Permettere ai lavoratori di partecipare al senso d’impresa significa porre le basi per costruire coinvolgimento, collaborazione, responsabilizzazione e motivazione.

La partecipazione al senso di un’azienda passa anche attraverso il processo decisionale. Quante volte capita che ad ogni persona in azienda venga data la possibilità di essere partecipe di processi decisionali senza che si crei scompiglio? È necessario che le aziende si impegnino per sviluppare forme organizzative che incoraggino le persone ad esprimere le loro idee e che ne garantiscano un ruolo nel processo decisionale. “Non si tratta di coinvolgere il lavoratore della base in decisioni che spettano ai massimi dirigenti. A ciascuno compete il proprio livello di responsabilità. Tuttavia è necessario che ad ogni stadio del processo decisionale le decisioni siano prese col dovuto rispetto delle opinioni di chi ci lavora”. Tutto quello che una persona chiede al lavoro è di essere ascoltata  – il che significa anche dare molto di sé  evitando di accettare in modo remissivo l’idea che il potere appartenga inesorabilmente al capo il quale è sempre libero d’ignorare le opinioni dei suoi collaboratori.

Il tormento sul posto di lavoro può anche derivare da una forma di sabotaggio di sé, intesa come impossibilità di esprimere liberamente sé stessi. Quando ero dipendente mi capitava in continuazione di vedermi preclusa la possibilità di vivere le mie inclinazioni, di coltivare una mia aspirazione, di segnalare una tensione o di partecipare, con idee, intuizioni e azioni, al miglioramento dell’azienda. Se poi mi azzardavo a muovermi nelle regioni di confine con altri ruoli aziendali, apriti cielo!

Questa devozione spontanea che il lavoratore vorrebbe poter offrire all’azienda e questa sua inclinazione a sconfinare nel mansionario di altri perché ha qualcosa da dire che potrebbe fare la differenza, mette in crisi le aziende e le rende a dir poco ingestibili trasformando così in un tabù la libera espressione di sé sul posto di lavoro. Perché?

Perché l’inclusione, la partecipazione, l’ascolto e la distribuzione del potere sono dinamiche complesse calate in un mondo a complessità crescente e spesso le aziende non sono attrezzate per gestirle al meglio o non sanno da dove iniziare. Serve una sostanziale expertise di processo per virare a nuove forme di organizzazione del lavoro che siano adeguate alle sfide del nostro tempo. E com’è il nostro tempo? È volatile, incerto, complesso ambiguo. In ambito organizzativo viene usato spesso un acronimo per descrivere l’epoca in cui viviamo. Si chiama VUCA e sta per: Volatility, Uncertainty, Complexity and Ambiguity. È necessario essere resilienti ed esperti.

Come fare? “Serve cambiare struttura per cambiare cultura”: è tutta una questione di processo, di definizione e condivisione di regole. Si chiama Self Management o auto-organizzazione. E di solito si applica nelle imprese del bene comune, ossia quelle imprese che, con il loro modo di fare impresa, danno un contributo fattivo alla collettività. Volete saperne di più?

Informazioni per il workshop:
iscriviti al workshop del 18 ottobre 2019 sul Self Management per l’Impresa del Bene Comune cliccando qui sotto: https://www.eventbrite.it/e/biglietti-self-management-per-limpresa-del-bene-comune-workshop-a-verona-71258826067

Fonti ispirazionali e citazioni da:
Gilles CharestVivere in Sociocrazia, Oikonomia – Meditazioni sul capitalismo e il sacro di Luigino Bruni, Giampaolo Colletti (https://www.ilsole24ore.com/art/ambiente-diversita-inclusione-brand-sull-orlo-una-crisi-scopo-ACd5XXi?refresh_ce=1), Wikieconomia di Leonardo Becchetti, video divulgativi di Pietro Antolini

Photo Credits: Broesis, Pixabay

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